Che fatica essere
uomini
A cura di Sergio
Natoli omi
Nel 1988 Sergio Endrigo esordì con questo canto nel quale,
dopo aver visto cose strane nel cielo e sulla terra, affermava “Che fatica
essere uomini” e concludeva: “Partirà, la nave partirà. Dove arriverà, questo non si
sa. Sarà come l'Arca di Noè, il cane, il gatto, io e te”.
In un mondo soggiogato dall’economia, dal potere politico e
dall’immagine è fatica essere uomini. È fatica essere “persone”.
È fatica non rimanere prigionieri di un “io” plurale
che schiaccia persone e popoli. L’io delle multinazionali, dei dittatori di
turno, etc.
È fatica essere persone “in relazione” capaci di
costruire armonie interpersonali e di inter-indipendenti. “Il “noi” non è un “io” grande.
Il “noi” è il grande contenitore di quella vita in relazione che costituisce
l'umano e l'umano non può che essere questo “io” in relazione.”[1]
È fatica essere uomini capaci di riconoscere le libertà
fondamentali dell’altro, di altri gruppi umani, di altri popoli che scelgono di
andare a vivere in un angolo della terra diverso da quello dove sono nati.
È fatica essere uomini leali, aperti e capaci di riconoscere
gli errori della politica espansionistica che ha prodotto e continua ad
alimentare le mille forme di schiavitù che costringe milioni di uomini e donne
a migrare, a cercare una speranza di vita migliore. Una speranza che li rende
audaci, intrepidi, capaci di varcare frontiere e mari per iniziare una nuova
vita.
È fatica essere uomini in questo tempo di pandemia, in un
mondo che
“è già un altro: non dobbiamo aspettare che cambi, è già un
altro. Nessuno sa se questo nuovo mondo, dentro cui camminiamo, sarà in grado
di trasformare in impulso positivo quel sentimento di reciprocità, di
solidarietà che la pandemia ha fatto vedere, e cioè la consapevolezza che siamo
legati gli uni agli altri, anche se questo sistematicamente lo neghiamo”.
È
fatica essere uomini quotidianamente martellati dall’informazione sui continui
sbarchi e sui continui naufragi di barconi con il loro carico umano in fuga
dalle mille forme di schiavitù, ma che spesso, purtroppo, trovano il riposo
eterno in fondo al mare.
È fatica essere uomini che, come cristiani, ci lasciamo
fecondare e guidare dall’azione dello Spirito Santo che ci rende capaci di
mettere l’altro al centro della vita. Lo stesso Spirito, di cui profetizzò
Ezechiele, entra dentro l'umano e rende possibile all' umano ciò che all'umano
è impossibile.
“Dobbiamo praticare un cristianesimo che cerca Dio
dove Dio non c'è, perché se continuiamo a cercare Dio dove Dio c'è e certo che
lo troviamo. Sì, lo preghiamo, e Dio adesso ci dice: è venuto il tempo di
trovarmi dove non ci sono perché dove non ci sono mi devi portare tu. Sì, in un
barcone di migranti che rischia di morire. Dio lì non c'è perché se ci fosse
questi sarebbero salvi. Dio c'è quando questi vengono salvati. Allora se accade
che questi vengono salvati, ecco che Dio si fa presente. Chi sono questi che
hanno reso presente Dio questi che li hanno salvati? Sono i profeti di oggi.”[2]
Quanto è attuale in ogni ambito della vita ma specialmente
nel rapporto con i migranti, quanto affermato da S. Giovanni della Croce: “Là
dove non c’è Amore, metti Amore e troverai Amore”.
L’accoglienza di Gesù morto e risorto svuota il nostro “io”
e ci rende audaci discepoli ed intrepidi apostoli nell’oggi del mondo. È l’esperienza di S. Paolo quando ai Galati dice:
“non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo,
la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso
per me.”[3]
Nell’andare verso i migranti, come anche nell’accoglierli,
come cristiani viviamo l’incontro dell’Amore. Allora l’immigrato non è più visto
come “hostes”, come uno che attenta alla nostra sicurezza, quanto
piuttosto come “hospes” come un ospite che porta Dio tra di noi. In
questo nostro tempo, nello scorrere della storia come “kronos”, entra il
“kairos” come tempo della grazia, come occasione favorevole, opportunità
di cambiamento per vivere la “charis”, come prossimità, frammento di
eternità, germoglio dei “cieli nuovi e della terra nuova”. Vivere questo
significa vivere il tempo del Regno di Dio tra noi, del “noi più grande”.[4]
Possiamo dare il nostro contributo portando i nostri “cinque
pani e due pesci” al Signore della storia per rispondere al bisogno di
salvezza di chi cerca speranza, facendo tutto ciò che ci è possibile fare, sapendo
sempre che “se il Signore non costruisce la casa invano fatica i costruttore.”[5]
Noi siamo certi che “la speranza non delude”, che il
Signore è con noi nella barca della nostra vita che naviga in un mare in
tempesta. Allora la nave partirà ma questa volta dentro non ci saranno “il
gatto, in cane io e te”, ma ci sarà la famiglia umana.
Palermo, 19 maggio 2021
[1]
Mauro Magatti, Verso un noi sempre più grande, Incontro con la Diocesi
di Agrigento, 11 maggio 2021
[2]
Mons. Antonio Staglianò, Verso in noi sempre più grande, Incontro con la
diocesi di Agrigento,18 maggio 2021
[3]
Gal. 2, 20
[4]
Cfr. Impellizzeri-Lorefice, L’ospite porta Dio tra noi, Il Pozzo di
Giacobbe, 2021, p. 55
[5]
Salmo 127, 1
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